I media, il processo e l'ircocervo ipnotico. di Francesco Petrelli - maggio 2015

Riflessioni a margine del Convegno “Informazione e Giustizia” di Torino

di Francesco Petrelli

Si è tenuto a Torino, l’8 e 9 maggio, il convegno organizzato dall’Osservatorio Media e Processo dell’Unione Camere Penali Italiane, con la partecipazione di autorevoli docenti, giornalisti, avvocati e magistrati e con la partecipazione straordinaria di Daniele Soulez Larivière, avvocato penalista francese, autore nel 1993 di un testo oramai classico che ha indagato per la prima volta gli intrecci pericolosi fra giustizia penale e informazione.
Merito del Convegno è stato non solo quello di aver svelato, attraverso la voce di tutti i suoi interpreti, quel complesso rapporto che oramai lega strettamente l’informazione all’esercizio della giurisdizione, ma anche quello di aver fatto cadere il velo di ipocrisia che spesso copre le discussioni in materia, ponendo tutti, avvocati, giornalisti e magistrati, a confronto diretto con la realtà di un fenomeno che appare nel tempo deformare sempre più l’immagine ed i connotati stessi del processo penale.
E’ forse vero - come ha detto Filippo Facci - che il “circo mediatico-giudiziario” (secondo l’espressione coniata dal maitre Soulez Larivière) più che un problema sia oramai un dato di fatto. Uno di quegli abiti mentali che lentamente sedimentano nel tempo e vanno a formare il sostrato culturale, le abitudini e le ritualità stesse di una collettività intera. Ma dovremmo forse partire da un altro punto di vista, che scenda nelle viscere di questo “dato di fatto” e ne faccia nuovamente un problema: tanto il processo quanto l’informazione hanno a che fare con la verità, cercano la verità, la controllano e la sanzionano. O almeno dovrebbero. Perché dunque meravigliarsi che procedano a braccetto, che possano essere di fatto – come si legge nel sottotitolo del convegno – una sinergia! Credo che questa sia, nel profondo, la radice del problema, ovvero di quel “dato di fatto” che torna ad essere un problema.
Perché è proprio questa sinergia, a ben vedere, che può a volte degenerare in una perversione. Occorre infatti accordarsi sul significato delle parole e dare forma all’idea che noi abbiamo di Informazione e di Processo. Se il processo penale è il fare giustizia, il che costituisce la manifestazione più ampia e più piena di esercizio di uno dei poteri dello Stato, come può l’informazione, classicamente intesa come cane da guardia del potere, farsene servitrice, avallarne acriticamente l’operato, elogiarne indistintamente le performances? Si dovrebbe riflettere in particolare sulla circostanza che la verità dei media e quella del processo hanno una qualità assai differente e guai confondere questi due tipi di verità, entrambi necessari alla democrazia, ma che risultano utili al suo sviluppo solo se tenuti distinti nei ruoli e nelle funzioni: quando l’informazione, fraintendendo il senso della sua funzione sociale, si mette al servizio della giustizia si genera un mostruoso ircocervo che incrocia l’apoteosi del potere con l’ipnosi della gogna.
Ma i tempi mutano così rapidamente che sotto l’apparente ripetizione di moduli comportamentali sperimentati, si vanno affinando nuovi format comunicativi. Vi sono infatti “informazioni” che sembrano possedere una qualità diversa da quella consueta. Non si tratta del testo di una intercettazione, del brano di un interrogatorio, della storia di un’investigazione, della copia di un’ordinanza, ovvero della classica modulazione con la quale si viola “occasionalmente” il segreto dell’indagine in favore di questo o di quel giornalista, ma di “informazioni” appositamente modellate, se non nei contenuti almeno nelle tempistiche, per i media, e dunque di vere e proprie performances mediatiche. Al centro di queste “informazioni” non sono tanto i dati investigativi ma l’aura stessa dell’investigazione, il suo indiscutibile karisma.
Appartengono certamente a questa moderna “categoria informativa” le immagini, ossessivamente rimbalzate sui media, dell’arresto di Massimo Carminati, presunto boss di Mafia Capitale, con le mani alzate, e quelle dell’arresto di Massimo Bossetti, imputato dell’omicidio di Yara Gambirasio, inginocchiato, o il video del suo primo colloquio in carcere con la moglie. E’ davvero difficile non vedere nell’uso di queste nuove forme di comunicazione giudiziaria una strategia sofisticata, sottile e pervasiva, a supporto dell’attività delle procure e delle polizie giudiziarie. In alcuni casi a sostegno di una potente immagine moralizzatrice o di una giurisprudenza creativa, in altri a siglare l’inutilità di ogni dubbio e di ogni approfondimento probatorio e l’inevitabilità del rinvio a giudizio dell’imputato.
Ed è allora inutile assistere al mea culpa di qualche magistrato illuminato che – come fa il dott. Spataro - si scaglia giustamente contro il protagonismo di questo o quel collega, o di giornalisti che ammettono di approfittare degli spazi lasciati aperti dalla legge e dalla prassi, se non si comprende che il problema è altrove, in quella alleanza di fatto che anziché retrocedere, si rinsalda cambiando la sua qualità.
Non più dunque una ingenua “connivenza” coltivata nel cono d’ombra di normative imperfette e di inquirenti distratti, ma l’avanzare di una nuova idea del rapporto fra processo e società, nel quale l’informazione non controlla la verità, non pone domande imbarazzanti agli investigatori e alle procure, non pone mai questioni di metodo, ma enfatizza il bene assoluto di una giustizia palingenetica, a volte somministrata con pratiche crude e metodi sbrigativi, ma in sintonia con le attuali aspettative, prodotte dall’ircocervo ipnotico, di una opinione pubblica trasformata in un pubblico senza opinioni.

Torino, 9 maggio 2015