Quando l'aggravante discrimina l'amore - di Ezio Menzione - settembre 2013

Quasi tutti concordano ormai, mentre esso sta per essere convertito in legge, con quanto l’Unione delle Camere Penali ha denunciato subito dopo che fu varato dal Governo il decreto legge sul “femminicidio”, titolato “prevenzione e contrasto della violenza di genere”. Un decreto più propagandistico che fattuale, mirato più alla repressione che non alla prevenzione, tale da ricondurre l’intero vasto e delicatissimo problema ad una questione di ordine pubblico, ma, soprattutto, denso di contraddizioni e aporie al proprio interno.

Volevo qui metterne in luce una, finora non adeguatamente valutata.

Il decreto, al suo primo articolo, prevede, per il reato di violenza sessuale, due nuove aggravanti, che vanno ad aggiungersi alle sei già introdotte, che portano la pena da 6 a 12 anni. Una è quella di avere agito contro donna incinta: e su questa nulla da dire. La seconda l’avere agito “contro persona della quale il colpevole sia il coniuge, anche separato o divorziato, ovvero colui che alla stessa persona è o è stato legato da relazione affettiva, anche senza convivenza”.

E’ su questa “relazione affettiva” che vorrei soffermarmi. Il termine si presta a molte interpretazioni: dove comincia una relazione affettiva? cos’è che la definisce? in cosa la distinguo dalla semplice attrazione? Tali incertezze non sono prive di importanza, visto che il principio di tassatività che impronta il nostro ordinamento penale richiede che i comportamenti criminali siano individuati con assoluta chiarezza e conseguente certezza.

Vero è che il concetto di “relazione affettiva” era già stato introdotto nel codice 4 anni fa con la legge sullo stalking, ma non costituiva aggravante: non andava, di per se’, ad incidere sulla pena da comminare.
Vero anche che il nostro ordinamento fino esattamente a 40 anni fa (non tanto dunque) conosceva il blando trattamento riservato al delitto d’onore. Ma il delitto d’onore, pur consumandosi fra coniugi (o congiunti) non aveva nulla a che fare con la “relazione affettiva”, ma si radicava in un malinteso e arcaico senso dell’onore (come diceva la sua rubrica). Esso, comunque, è stato semplicemente cancellato, non è diventato aggravante, non si è ribaltato su se stesso.

Ma non è questo il punto.
Il punto su cui riflettere, secondo me, è come sia possibile che un comportamento – certamente biasimevole e condannabile - dettato dall’amore, o, più esattamente, che si colloca all’interno di una relazione cui non è estraneo l’amore, anzi ad esso improntata, possa essere riguardato come più grave di un comportamento dettato, per esempio, dalla sola concupiscenza, dal solo desiderio di sopraffazione.

La nostra cultura occidentale ha sempre considerato l’innamoramento e l’amore come uno stato che se non giustifica azioni criminali verso l’oggetto della propria passione, certo costituisce una sorta di attenuante, un modo di riguardare il reato con una certa, maggiore o minore, comprensione.

Il Moro di Venezia che uccide Desdemona non è certo apprezzato da Shakespeare (che infatti lo fa morire) e da 4 secoli di pubblico, che vorrebbe gridare:”Otello, non farlo, Jago ti ha mentito”. Ma noi capiamo Otello e, anche se non lo giustifichiamo, lo consideriamo una vittima della sua stessa passione. Una passione che rende ciechi, come del resto siamo (o eravamo) soliti rappresentare Amore.

Ma, si dice, l’aggravante risponde al principio di affidamento, per cui la moglie, la fidanzata, l’oggetto del nostro amore sono portati a fidarsi di chi professa il proprio affetto e attaccamento e dunque sono più esposti e fragili, e dunque è giusto rafforzarne la tutela. Naturalmente l’argomentazione è forte.

Ma è tanto forte da ribaltare per decreto legge un canone che aveva “costruito” il nostro modo di concepire e riguardare i comportamenti del soggetto posseduto dalla passione o anche solo legati da affetto? Un ribaltamento di 180°: da una sorta di attenuante si passa ad una codificata e conclamata aggravante.
A me pare che questo ribaltamento non sia solo il segno di un legislatore affrettato e incongruo, ma – purtroppo, e sottolineo il purtroppo – sia anche o soprattutto il segno di un universo mentale e relazionale incapace di misurarsi con cose più grandi di lui: la passione, l’amore, anche solo il calore di un affetto.

Staremo a vedere quali saranno le conseguenze applicative. Per esempio, come si intreccerà l’aggravante della “relazione affettiva” con la infermità o seminfermità mentale cui un amore distorto (ed è sempre distorto quando l’oggetto dell’amore diviene vittima di comportamenti addirittura criminali) può condurre o può esso stesso rivelare o in esso consistere?

La preoccupazione però è forte. Anche per la forza “espansiva” che la costruzione di una nuova aggravante può avere rispetto a tanti altri reati.

Infine, il titolo del decreto, per quel che vale, è riferito alla “violenza di genere” e dunque sembra presupporre la differenza di genere fra il violento e la vittima. Non così la dizione dell’articolo 1 né quella dei successivi. Dobbiamo dunque ritenere che sia applicabile anche alla violenza fra persone dello stesso sesso: anch’esse possono essere legate da “relazione affettiva” e concretamente avviene che lo siamno. Ammesso dunque che l’aggravante sia giusto applicarla alla coppia eterosessuale, non si vede perché non dovrebbe essere applicata anche alla coppia omosessuale (ed infatti sono molti gli atti di violenza che possono innestarsi in una vita di coppia omosessuale, anche se non vengono mai denunciati per ovvii motivi).
Assistiamo così alla tragica incongruenza per cui agli occhi del nostro ordinamento l’essere uniti in coppia per gli omosessuali non ha alcuna rilevanza giuridica e dignità sociale, ma costituisce un’aggravante penale.

Ezio Menzione
(componente Giunta UCPI)