Riflessioni a margine del Congresso - di Marcello Gallo - settembre 2015

di Marcello Gallo

Dico subito che, alla vigilia di un congresso indetto dall'Unione delle Camere penali per discutere di ciò che è vivo e ciò che è morto del nostro sistema penale, sostanziale e processuale, mi piace riflettere su una sentenza che, senza tema di esagerare, penso costituisca un punto fermo sia esegetico che dommatico. È una sentenza della Corte di Cassazione, II sezione penale, depositata in data 4 agosto 2015. Non mi nascondo che si tratta di compiacimento in buona misura partigiano: non è da ieri che apprezzo in modo particolare il lavoro e lo stile di lavoro dei Giudici di legittimità. Ma c'è di più: mi colpisce il coraggio intellettuale che prendere posizione netta e precisa su un tema particolarmente dibattuto ha richiesto.
A questo punto mi accorgo che, contrariamente al solito, mi sono lasciato prendere dall'entusiasmo: veniamo allora al sodo e si vedrà che l'entusiasmo non è ingiustificato. La res iudicanda: che cosa è e quale struttura abbia il cd. concorso esterno ad associazione di stampo mafioso e, potremmo aggiungere, ad un reato associativo in genere. Concorso esterno sembra alludere, per ovvia necessità logica, ad una forma di concorso, contrapposta alla prima, in quanto interna. Ma concorso interno è espressione che sarebbe priva di senso: il concorrente interno non è altri che l'autore, rectius: il coautore, necessario. E di ciò si è talmente convinti che alla locuzione non si è mai fatto ricorso. Si discorre di «concorso esterno» e si preferisce dimenticare quello che ne sarebbe l'indispensabile contrappunto: il concorso interno. Non sono questioni puramente terminologiche o, per dirla tutta, di mere parole. Chi utilizza questa espressione di recente conio tende evidentemente a porre una qualche distanza fra ciò che qualifica concorso esterno e il concorso di più persone nel reato retto, con funzione incriminatrice ex novo, dagli artt. 110 ss. c.p. Questo, naturalmente, per consentire la più ampia applicazione della ipotesi concorsuale «esterna». Al tempo stesso, però, fornisce a chi sostiene l'inaccettabilità della costruzione gli argomenti più solidi.
Metto da parte l'obiezione fondata sulla stretta legalità. I fautori della figura in discorso parlano, senza mezzi termini, oserei dire, in un sistema che non conosce il vincolo del precedente, sfacciatamente, di istituto creato dalla giurisprudenza. Sorvolo sulla stretta legalità perché chi parla di «reato» di fonte giurisprudenziale parte proprio dalla premessa, esplicita o implicita, che ci sono regole ormai superate: la vivacità e la velocità dell'esperienza giuridica attuale sarebbero incompatibili con un qualcosa che cristallizza e fissa fino a nuovo ordine i modi di creazione del diritto. Punto di vista, questo, a mio avviso che non tiene conto della funzione essenziale della regola giuridica. Ma è un'altra storia. Qui affrontiamo la questione come ha fatto la sentenza da cui prendo le mosse: in base a quanto prescrive il nostro diritto positivo. Su tal via ci chiediamo che conto bisogna fare dell'idea secondo la quale tra la condotta del concorrente esterno e quella dei partecipi necessari sarebbe sufficiente un semplice rapporto di contiguità. Relazione quanto mai evanescente ed incolore, estranea ad ogni canone di diritto positivo: prescinderebbe tanto da un apporto causale quanto da una cooperazione all'offesa penalmente rilevante. Ragioniamo, allora, seguendo il filo del discorso della Suprema Corte, alla stregua degli artt. 110 ss. c.p, con particolare riferimento alla funzione incriminatrice ex novo del concorso eventuale alla funzione, cioè in forza della quale sono ritenuti partecipi soggetti che non hanno posto in essere una condotta conforme alla fattispecie criminosa, monosoggettiva o plurisoggettiva che sia.
Dal punto di vista dei requisiti oggettivi dell'atto di partecipazione, sarà indispensabile un contributo causale alla permanenza e al funzionamento della struttura plurisoggettiva (struttura, nella maggioranza dei casi, di tipo associativo). Dal punto di vista dell'elemento psicologico, il concorrente eventuale dovrà aver consapevolezza del dolo, quasi sempre specifico, degli autori del reato plurisoggettivo: non dovrà condividerlo. È sufficiente la volizione del proprio comportamento attivo ed omissivo, accompagnata dalla rappresentazione del contributo causale e di ciò che vogliono e si rappresentano gli autori diretti del reato plurisoggettivo. Dal concorso eventuale vanno distinti il favoreggiamento personale (art. 378 c.p.) e reale (art. 379 c.p.). Sia l'uno che l'altro sono imperniati sull'aiuto prestato non alla struttura plurisoggettiva, bensì ad una o più delle persone che ne fanno parte. Se l'agente si rappresenti anche una seria possibilità di appoggio alla struttura, ci sarà concorso con dolo eventuale e, conseguentemente, esclusione del favoreggiamento.
Conclusioni, si dirà, di una «tranquilla discussione accademica» destinate a pagine più o meno riuscite di una monografia o di un manuale, apprezzabili quanto si vuole ma che spesso lasciano il tempo che trovano. Nient' affatto. Dommatica ed esegesi si sostanziano in parole: in rebus iuridicis alle parole seguono, di regola, fatti. Questi fatti sono destini umani. Ora, leggere e riportare il concorso esterno a concorso eventuale significa, ripeto, ancorare la responsabilità a presupposti precisi sufficientemente tipicizzati - quanto esige, insomma, un sistema che, almeno per ciò che concerne la certezza del suo tradursi in evento storico, si pone uguale per tutti.