14/10/2019
La pena e la pietà

Una drammatica storia di ordinaria burocrazia. 

Un uomo vive ristretto nella propria abitazione, colpito da un’ordinanza cautelare disposta dalla Corte d’Appello perché un’altra Nazione ne ha chiesto l’estradizione, e si teme che possa fuggire; i giudici che ordinano la misura ritengono che i domiciliari siano sufficienti, anche perché sull’uomo vigilerà l’occhio impassibile d’un braccialetto elettronico.

In pendenza del procedimento, il nipote – figlio della sorella – viene colpito da un ictus: le condizioni appaiono subito gravissime, il giovane viene ricoverato in terapia intensiva, in coma farmacologico, la prognosi è riservata, anzi disperata.

Il detenuto chiede di poterlo visitare in ospedale, per salutarlo un’ultima volta finché è in vita.

Lo chiede una, due, tre, quattro volte: ogni volta fornendo tutti i chiarimenti che i giudici, rigorosissimi, volta per volta richiedono (non è dimostrato che sia il nipote: si produce lo stato di famiglia; non è dimostrato il pericolo di vita: si produce la cartella clinica; etc.).

Eppure i giudici della Corte, inflessibili, rigettano: tutte e quattro le volte.

Perché, spiegano, la visita ai moribondi non è prevista dal codice, e perché lo stato di coma non consentirebbe comunque di interagire col moribondo, che non s’accorgerebbe di nulla...

Inutilmente il difensore protesta, accorato: qui non è questione di fine diritto, bensì di umanità, di dignità, di rispetto dei diritti fondamentali della persona.

E’ questione di pietas, avrebbero detto gli antichi.

La malattia frattanto s’aggrava, le condizioni precipitano, il nipote muore.

Lo zio vorrebbe andare almeno al funerale, ma le ragioni cautelari prevalgono di nuovo: difficile controllare qualcuno nel contesto di un funerale pubblico, scrivono i giudici, vada semmai (dopo) a pregare sulla sua tomba, con la scorta.

[Però, nelle more, ha miglior sorte la richiesta d’andare dal dentista: vada pure, senza scorta].

* * *

E' una storia triste, di burocratica disumanità.

E’ la storia di come un sistema giudiziario sappia restare ferocemente indifferente alle ragioni di umanità, al punto da negare l’esercizio di un fondamentale diritto della personalità, quello di salutare in limine mortis un proprio caro, e di piangerlo ai suoi funerali.

Vi sono ragioni plausibili per giustificare un esercizio così spietato della giurisdizione?

La Costituzione vieta qualsiasi trattamento detentivo “contrario al senso di umanità”!

Vi sono forse ragioni pratiche? Può forse il costo ipotetico di una scorta per il tempo d’una visita ad un moribondo, o di un funerale, indurre una Comunità a rinnegare il dovere di rispettare la dignità d’ogni persona, ancorché ristretta?

Siamo sicuri che le domande che poniamo appariranno tutte – ed a tutti – solo retoriche.

 

Il Direttivo della Camera Penale di Firenze