L'Unione delle Camere Penali Italiane è stata audita con il proprio Segretario, Avv. Eriberto Rosso, presso la commissione giustizia del Senato sul Disegno di Legge n. 808 di iniziativa governativa recante la modifica al codice penale e al codice di procedura penale.
Leggi qui il documento allegato e depositato in Commissione.
Una prima considerazione che si deve proporre, in ordine al disegno di legge oggetto di interlocuzione, è che con tale strumento il Governo, su proposta del Ministro della Giustizia, ha inteso affrontare (oltre ad un profilo sostanziale del quale partitamente diremo) alcuni aspetti del processo penale senza prendere invece in considerazione altre vere e proprie emergenze – segnalate, tra gli altri, dall’Avvocatura penale – frutto dei decreti attuativi della cd. delega Cartabia, che mettono e metteranno nel prossimo futuro a dura prova il sistema del contraddittorio e l’insieme delle garanzie difensive. Il riferimento è al mancato intervento, sul quale pure vi era stato un impegno del Ministro, per la immediata modifica dell’art. 581 c.p.p. nella parte in cui sono oggi individuati oneri per la difesa tecnica, dal mandato specifico ad una nuova elezione di domicilio, che impediranno l’accesso agli ulteriori gradi di giudizio per gran parte delle difese di ufficio.
Altra urgenza è data dalla necessità di una nuova disciplina in materia di prescrizione.
Le riforme in materia penale richiedono una visione di insieme e la considerazione complessiva degli equilibri del processo, essendo problematici gli interventi – a volte pure necessari – su singoli aspetti specifici.
Se è pur vero che il Signor Ministro della Giustizia ha pubblicamente, anche in queste ultime settimane, richiamato un cronoprogramma di ulteriori riforme in materia di giustizia, di queste non sono ancora noti né l’ispirazione né il dettaglio.
Nel merito del disegno di legge in discussione il giudizio delle Camere Penali è senz’altro positivo per quanto attiene la previsione della abrogazione dell’art. 323 c.p. e la maggiore tipizzazione della fattispecie di traffico di influenze. L’abuso di ufficio è norma incriminatrice sulla quale il Legislatore è più volte intervenuto, nel tentativo di renderne più definiti i presupposti; in realtà essa non ha mai svolto un vero e proprio ruolo di presidio di legalità, risolvendosi semplicemente in uno strumento di invasivo controllo da parte delle Procure della Repubblica nella attività amministrativa. È noto come la semplice contestazione abbia spesso determinato la paralisi della attività della Pubblica amministrazione e alterato gli equilibri della vita democratica in occasione di competizioni elettorali. Infondate sono le critiche secondo le quali con tale abrogazione verrebbe meno il ruolo di “reato spia” in relazione alla sussistenza di ben più gravi fattispecie, come del resto neppure suggestiva è la considerazione per la quale la eliminazione di tale norma determinerà la legittimazione di condotte arbitrarie.
Più articolato il giudizio sulle previste modifiche al codice di rito, la più significativa delle quali riguarda il procedimento per la adozione dei provvedimenti in materia di misure cautelari; è positiva la previsione, in linea di principio, della collocazione dell’interrogatorio di garanzia prima della eventuale emissione della misura, in modo da consentire alla persona sottoposta a indagini di eventualmente rappresentare la ricostruzione alternativa dei fatti e le ragioni di resistenza alla proposta del Pubblico Ministero senza versare nella traumatica condizione della avvenuta restrizione in carcere. Certamente tale modalità porterebbe al recupero della vera funzione di garanzia che l’interrogatorio previsto dall’art. 274 ha perso nella sua applicazione pratica. Anche la riserva ad un giudice collegiale della decisione in ordine alla richiesta custodiale in carcere è evidente espressione di una corretta interpretazione della regola dell’extrema ratio per la misura carceraria.
L’insieme delle nuove garanzie, però, sconta l’ampio sistema delle deroghe destinato a rendere la nuova disciplina assolutamente residuale. È sufficiente, infatti, la prospettazione da parte del Pubblico Ministero di una delle esigenze di cui all’art. 274, lettere a) e b), c.p.p. o che il reato contestato appartenga al catalogo degli ostativi per mantenere fermo l’attuale meccanismo. La disciplina, peraltro, presenta una ulteriore anomalia, per la quale parrebbe che il giudice collegiale debba comunque procedere all’interrogatorio preventivo senza una preliminare delibazione sulla fondatezza della richiesta; non sarebbe dunque possibile un rigetto de plano.
Vi è poi una riflessione di fondo da fare, già segnalata da autorevole dottrina, che porta ad annotare come – a fronte di un rafforzamento delle garanzie per la persona indagata dato dalla previsione della collegialità cautelare – il sistema continui a prevedere che la decisone all’esito del giudizio di cognizione sia riservata a un giudice monocratico e dunque senza l’apporto della discussione della camera di consiglio.
Altro intervento attiene alla informazione di garanzia di cui all’art. 369 c.p.p. In proposito va positivamente segnalato che, con la riforma, l’atto del quale si cerca di estendere la natura di garanzia dovrà contenere anche «la descrizione sommaria del fatto, comprensiva di data e luogo di commissione del reato». Al di là di alcune approssimazioni in punto di tecnica legislativa (attenti commentatori segnalano come, nella nuova formulazione, la norma continuerebbe a prevedere anche l’inciso della «data e del luogo del fatto», a cui si aggiungerebbe la indicazione della «data e del luogo di commissione del reato»), in ogni caso è apprezzabile la nuova prospettazione, che consentirà alla persona sottoposta a indagini e alla difesa tecnica di finalmente conoscere l’oggetto dell’accusa.
Assai deludente invece è l’intervento in tema di intercettazioni. Qui la scelta è quella di un intervento chirurgico nella complessa disciplina, finalizzato a rendere più cogente il divieto di pubblicazione del contenuto delle intercettazioni, prevedendo una deroga nel caso in cui tale contenuto «sia stato riprodotto dal giudice nella motivazione del provvedimento o utilizzato nel corso del dibattimento». La mancanza di adeguati presidi sanzionatori per chi dovesse comunque procedere alla pubblicazione degli atti indicati rende la norma una norma manifesto; ma ciò che è più grave, nella prospettiva delle garanzie, è che non si è ritenuto di mettere mano alla disciplina delle intercettazioni, secondo una chiara visione del bilanciamento dei contrastanti interessi, peraltro di rilevanza costituzionale, in gioco. La vera urgenza è quella di impedire che, anche attraverso strumentali contestazioni, si possa ricorrere a tale strumento investigativo, per poi prevedere la circolarità del loro utilizzo in procedimenti diversi. Le intercettazioni sono talmente invasive da dover prevedere non solo chiarezza di presupposti per la loro adozione ma anche che il loro utilizzo debba essere riservato al procedimento per il quale sono state disposte. Non è questo il convincimento del Governo, basti pensare al recentissimo decreto del 7 agosto, che ha inteso estendere ulteriormente la disciplina speciale per le intercettazioni, travolgendo anche i limiti, pure insufficienti, costruiti dalla giurisprudenza di legittimità, per limitare l’utilizzo delle intercettazioni in procedimento diverso.
Altra emergenza è quella di rendere davvero assoluto il divieto di ascolto dei colloqui tra l’assistito e il difensore.
L’Unione delle Camere Penali Italiane ha salutato come molto positiva la introduzione del divieto di impugnazione delle sentenze di assoluzione, ancorché limitato ai soli reati a citazione diretta: «Si tratta di un primo passo verso la piena realizzazione di una delle più antiche battaglie dei penalisti italiani», così ci siamo espressi in un recente documento. Riteniamo qui ricordare che l’intervento della Corte costituzionale, che ha abrogato la disciplina introdotta dalla cd. legge Pecorella, ha mostrato i suoi limiti interpretativi al punto da convincere la commissione presieduta da Giorgio Lattanzi a riconsiderarne almeno uno dei capisaldi.
L’appello del Pubblico Ministero è incompatibile con il principio del ragionevole dubbio, mentre quello dell’imputato, lungi dal rappresentare un privilegio, è finalizzato ad evitare l’errore giudiziario. È doveroso in proposito richiamare l’art. 14 del Patto internazionale sui diritti civili e politici (comma 5: «Ogni individuo condannato per un reato ha diritto a che l’accertamento della sua colpevolezza e la condanna siano riesaminati da un tribunale di seconda istanza in conformità della legge»), che ha come ulteriore presidio l’art. 2 del protocollo CEDU e l’art. 24, comma secondo, della Costituzione che riconosce l’impugnazione di merito da parte del condannato.
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