Una vergogna collettiva che scivola via come pioggia battente; il documento dell'Osservatorio carcere UCPI
Da un articolo di stampa pubblicato il 20 luglio scorso, dal significativo titolo ‘Giacomo, che a due anni vive in un carcere e dice solo «apri e chiudi»’, si scopre l’ennesima vergogna, troppo spesso taciuta, dei bambini in carcere, costretti, loro malgrado, a condividere la cella con le madri recluse. Una punizione da innocente che lascerà segni alla crescita e allo sviluppo, psico-fisico, del bambino, mentre i segni della nostra vergogna scivolano via come pioggia battente.
“Giacomo”, nome di fantasia, si trova a Rebibbia. Come tutti i bambini, ospiti delle carceri italiane, non può correre, non può giocare, non interagisce con altri bambini. Ha un lessico fatto di poche parole, tra le più significative quelle apprese e viste in un carcere fatto di cancelli e di portoni blindati: «apri» e «chiudi».
Sono i “bambini in carcere”, privi di normali relazioni di gioco, di studio, di approccio con il mondo esterno. Costretti a trascorrere le loro giornate, per quante siano le attenzioni rivolte loro dal personale, privati di tutto l'ordinario universo sociale indispensabile per la crescita emotiva e per il corretto inserimento in un normale e sano contesto ambientale.
Parlano il linguaggio del carcere. Interagiscono con un mondo minimo fatto di assistenti penitenziari, di spazi asfittici, di grate alle finestre, con orari imposti per il vitto, per un po’ di tempo all'aria aperta, per il gioco, che hanno un’umanità tutta al femminile con la quale confrontarsi e non scambiano la loro esperienza con altri coetanei, disegnano nel loro vissuto futuro uno strappo che non può non avere conseguenze, nel migliore dei casi psicologiche e di adattamento; talvolta, come per Giacomo, anche nello sviluppo psicomotorio.
Le carceri, si sa, non hanno reparti di medicina pediatrica, tanto che una banale influenza comporta una seria preoccupazione e richiede il ricovero, insieme alla mamma, in un reparto ospedaliero esterno, difficoltoso, come per tutti gli altri ristretti, per la carenza di personale che faccia da scorta e da piantone e con i conseguenti, consueti ritardi che finiscono per incidere sulla salute e sulle esigenze di cura del minore.
A tal proposito, come non ricordare, il triste recente episodio verificatosi al carcere di Firenze Sollicciano, con una donna tunisina di 26 anni, ristretta benché incinta di 4 mesi, che ha perso il proprio piccolo perché, pur essendo inserita nel percorso di assistenza per donne in stato interessante, non è stato possibile il suo trasferimento fuori dal carcere. Una donna che aveva perso ben 10 chili, in assenza di adeguata alimentazione. Con una comunicazione urgente, trasmessa, a mezzo pec, all’apice della gravità della situazione, al Magistrato di Sorveglianza, che ha impiegato ben quindici giorni per arrivare sul tavolo del magistrato, senza l’adozione, nemmeno al momento dell’avvenuta tragedia, di un provvedimento adeguato.
Uno dei tanti casi di disumanità delle nostre carceri e delle violazioni dei diritti umani per le quali il nostro Paese è stata condannato dalla CEDU.
Eppure, nonostante i moniti europei ed internazionali, non siamo riusciti ad attuare un sistema in grado di impedire davvero l'ingresso dei bambini o delle donne incinte in carcere, attraverso l’uso alternativo delle case-famiglia, per ospitare in sicurezza le madri detenute e i loro bimbi.
Addirittura, si registra una opposta tendenza attraverso il disegno di legge denominato “disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell'usura e di ordinamento penitenziario” che vorrebbe eliminare l'art. 146, nn. 1 e 2, del codice penale, che prevede il differimento pena obbligatorio per le donne incinte e per le madri di bambini di età inferiore a un anno, una previsione di epoca fascista, che trova nella Costituzione, nella tutela della famiglia quale primaria cellula sociale, nella protezione della fragilità dell'infanzia, la propria matrice.
Rendere facoltativo, per tali categorie, il differimento della pena, ad oggi obbligatorio, delegando alla magistratura la possibilità di escluderlo, in situazioni di pericolo di eccezionale rilevanza di commissione di ulteriori delitti, imponendo, così, l’espiazione della pena presso gli istituti di custodia attenuata, manifesta una evidente incapacità della politica di misurarsi con le esigenze prioritarie di tutela della maternità e dell'infanzia, riconosciute tali già dal codice Rocco.
Al di là della evidente indeterminatezza del concetto di “pericolo di eccezionale rilevanza”, rimane il dato, insuperabile, della presenza, su tutto il territorio nazionale, di soli 5 ICAM, strutture comunque chiuse inidonee, perciò, alla corretta formazione e allo sviluppo del bambino.
Lauro (AV), Milano San Vittore, Venezia Giudecca, Torino Lo Russo e Cotugno, Cagliari rappresentano un numero troppo esiguo per garantire che la detenzione delle donne incinte o delle madri di bambini di età inferiore a un anno avvenga in zone prossime ai luoghi di residenza, nel rispetto del diritto alla territorialità stabilito dall'ordinamento penitenziario e dei criteri costituzionali di una pena che non sia inumana e degradante.
A differenza degli ICAM, le case-famiglie protette – introdotte, per le madri prive di un proprio domicilio idoneo, dalla Legge “Buemi”, 62/2011, senza, però adeguati finanziamenti – sarebbero delle soluzioni in grado di garantire alla mamma e al bambino un luogo più sereno e più aperto, inserito nel contesto urbano e non isolato dai principali servizi socio sanitari, territoriali e ospedalieri, simile, per quanto possibile, ad una casa, con aree separate e servizi, con spazi privati destinati agli incontri personali con operatori sociali, psicologi, altri figli e familiari e luoghi destinati alle attività di gioco per i bambini, senza grate né sbarre alle finestre.
Purtroppo, non hanno ancora trovato adeguata attuazione. Solo due, ad oggi, sono le case-famiglia, gestite da privati: una a Milano e l’altra a Roma.
Al 30 giugno 2024, i dati ministeriali segnalano la presenza di ben 23 madri in carcere e 26 figli al seguito. Presso la sezione femminile di Milano-San Vittore vi sono ristrette 5 madri e 6 bambini sotto i tre anni. Numeri che, comunque, potrebbero trovare una soluzione che li protegga da un’esperienza di vita che segnerà inevitabilmente i loro percorsi di crescita ordinata e normale.
In un tempo doloroso in cui il tasso dei suicidi nelle carceri ha raggiunto livelli mai prima toccati, con un legislatore riottoso a discutere e approvare misure in grado di alleggerire il carico umanitario delle carceri, a partire dalla introduzione della liberazione anticipata speciale, dando così una soluzione alla drammatica situazione di sovraffollamento che mantiene in una condizione di illegalità i nostri istituti di pena, privi di adeguato personale e risorse, inidonei a garantire i diritti minimi alla salute, all'igiene, al trattamento, all'affettività, sorprende un disegno di legge che crea ulteriori restrizioni e ipotizza nuove reclusioni senza neppure aver prima tentato di risolvere un’ endemica situazione di incapacità delle strutture di gestire il carico umano di presenze.
Peraltro, alla evidente incapacità delle carceri di gestire il numero sempre più crescente di ristretti corrisponde un’ulteriore criticità: la gravissima congestione degli uffici e dei tribunali di sorveglianza, da anni carenti di risorse umane e materiali, esclusi dai fondi del PNRR e incapaci di provvedere in tempi ragionevoli alle istanze delle persone ristrette.
A Roma, proprio il carcere femminile di Rebibbia, in cui sappiamo trovarsi ristretto, da innocente, il piccolo “Giacomo”, manca da mesi di un giudice in assegnazione, operando un sistema di turnazione ogni quindici giorni che rende di fatto impossibile l’instaurarsi di quel rapporto di prossimità tra la persona ristretta e il magistrato di sorveglianza, come disegnato dall’ordinamento penitenziario, per dare vita a un progetto trattamentale individualizzato che apra in concreto una prospettiva di reinserimento e di restituzione in società.
E così, per la valutazione da parte del giudice “turnista” delle istanze che magari aprirebbero le porte del carcere per “Giacomo” e per tutti gli altri bimbi reclusi, si rischia di dover attendere un tempo indefinito, lasciando questi piccoli innocenti a osservare il cielo, davanti a una finestra interrotta dalle sbarre, in attesa dell’arrivo di una volontaria che li porti all’ asilo nido e, così, sottrarli, almeno per qualche ora, a quel luogo fatto di inferriate, cancelli e confini che costringono, limitano, deformano la loro candida anima, il loro innocente pensiero, la loro inziale storia, i loro leggeri passi, i loro vivaci battiti, la loro vitale fantasia.
Roma, 29 luglio 2024
L’Osservatorio Carcere UCPI