21/10/2024
PREVENZIONE, ECCEZIONE, COSTITUZIONE - Corte Costituzionale, sentenza n. 162/24

La Corte Costituzionale (n. 162/24) torna ad occuparsi della materia di prevenzione, dichiarando l'incostituzionalità dell'art. 14, comma 2-ter D.L.vo 159/11, per molteplici profili di irragionevolezza e contrasto con i principi sanciti dalla Carta fondamentale. In motivazione, il Giudice delle Leggi ricorda che le misure di prevenzione personali sono presidiate dalle garanzie previste dall'art. 13 Cost., per cui nessuna presunzione di pericolosità sociale è ammissibile. Sottolinea poi la funzione risocializzante della pena, la cui espiazione deve essere sempre valutata per attualizzare il giudizio di pericolosità. La nota della Giunta e dell'Osservatorio Misure patrimoniali e di Prevenzione.

Il Giudice delle Leggi, con la sentenza n. 162/24, depositata in data 17 ottobre 2024, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 14, comma 2-ter, del Dlgs 159/2011 (“Codice Antimafia”), nella parte in cui prevede che il Giudice non debba rivalutare la persistenza della pericolosità sociale del proposto, ove l’esecuzione della misura di prevenzione personale sia rimasta sospesa in ragione di un periodo detentivo non superiore a due anni.

Per giungere a tale conclusioni, la Corte filtra la prevenzione attraverso il tessuto costituzionale, con risultati che meritano una prima riflessione di impatto.

Occorre, tuttavia, partire dalla genesi della norma censurata, per denunciare ancora una volta come il Legislatore continui a definire lo statuto della prevenzione in termini di eccezione.

Con la sentenza 291/13, la Consulta aveva già dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 15 CAM, nella parte in cui non prevedeva l’obbligo di rivalutare, anche d'ufficio, la persistenza della pericolosità sociale dell'interessato nel momento dell'esecuzione della misura, nel caso in cui l'esecuzione di una misura di prevenzione personale resti sospesa a causa dello stato di detenzione per espiazione di pena della persona ad essa sottoposta.

Nelle motivazioni, la Corte osservava che, per le misure di sicurezza, il problema della verifica della persistenza della pericolosità sociale era stato risolto con la modifica dell’art. 679 cpp, che introduceva un doppio accertamento attualizzante, reso prima dal giudice della cognizione e, in un secondo momento dal magistrato di sorveglianza, che deve verificare l'attualità della pericolosità, al momento in cui la misura, già disposta, deve avere concretamente inizio.

Su tale premessa, il Giudice delle Leggi considerava che il diverso e meno favorevole regime in vigore per le misure di prevenzione personali (nel quale l'accertamento della pericolosità sociale aveva luogo una sola volta ed era considerato sufficiente, anche nel caso di esecuzione differita del provvedimento) violava l'art. 3 della Costituzione, in quanto riservava ai suoi destinatari un trattamento irragionevolmente diverso rispetto a quello stabilito per i destinatari delle misure di sicurezza.

L’irragionevolezza di simile disparità veniva declinata sul crinale della comune finalità delle misure di sicurezza e delle misure di prevenzione (tanto da essere considerate «due species di un unico genus», che se «non implica, di per sé sola, un'indiscriminata esigenza costituzionale di omologazione delle rispettive discipline», impone tuttavia, che le eventuali dissimmetrie siano sorrette da ragionevolezza della scelta legislativa.

A valle dell’intervento della Corte Costituzionale, il Legislatore, con la legge 17 ottobre 2017 n. 161, ha introdotto l’art. 14 comma 2-ter nel D.L.vo 159/11, positivizzando l’intervento additivo della Consulta, ma inserendovi una eccezione.

La seconda valutazione di perdurante ed attuale pericolosità sociale dell’inciso, infatti, non è dovuta se l’esecuzione della misura di prevenzione personale sia rimasta sospesa a causa dell’espiazione di una pena detentiva inferiore a due anni.

Tale norma è venuta ora al vaglio della Corte Costituzionale, che ne ha rilevato la non rispondenza alla Carta fondamentale, richiamando alcuni propri precedenti arresti.

Ancora una volta, il metro è quello della ragionevolezza, ex art. 3 Cost., criterio ermeneutico elaborato dalla giurisprudenza costituzionale, ed avallato dalla dottrina (v., per tutti, M. Cartabia, I principi di ragionevolezza e proporzionalità nella giurisprudenza costituzionale italiana), in virtù del quale, ogniqualvolta è necessario operare una ponderazione ed un bilanciamento tra valori ed interessi contrastanti e costituzionalmente protetti, il fondamento di siffatta ponderazione deve rinvenirsi nella non arbitraria compromissione di un diritto a vantaggio di un altro.

Siffatta esigenza riposa sul basilare principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., che impone non un generalizzato egualitarismo, bensì esige che il legislatore e, più in generale, ogni soggetto investito del potere di incidere sulle altrui situazioni giuridiche soggettive, tratti le varie situazioni emergenti al livello della realtà sociale senza discriminazioni arbitrarie o irragionevoli (Corte Cost., sentenza 13 gennaio 2014, n. 1), in maniera sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro (Corte Costituzionale, sentt. nn. 264/2012 e 85/2013).

In tale ottica, la Consulta ha (nuovamente) ritenuto che la norma censurata fissi una irragionevole disparità di trattamento tra i destinatari di una misura di sicurezza e gli incisi da una misura di prevenzione personale.

I primi, sempre beneficiari di un giudizio di attualizzazione della pericolosità, ex art. 679 cpp; i secondi, solo ad alcune condizioni.

Distinzione trattamentale incompatibile con la medesimezza della finalità perseguita dalle due diverse misure (che è quella “di controllare la pericolosità sociale del soggetto che vi è sottoposto (sentenza n. 24 del 2019, punto 9.6. del Considerato in diritto): pericolosità sociale che, rispetto alle misure di sicurezza, è indiziata da un reato già accertato nel processo penale, ma che pure rispetto alle misure di prevenzione deve essere desunta da indizi relativi a precedenti condotte criminose, riconducibili al novero di quelle elencate nell’art. 4 cod. antimafia”) e dei presupposti (“Esattamente come le misure di sicurezza, inoltre, anche le misure di prevenzione personale, sia se applicate dall’autorità amministrativa, sia se adottate dall’autorità giudiziaria, presuppongono l’attualità della pericolosità sociale del destinatario della misura…Persistente pericolosità che deve essere puntualmente accertata, anche d’ufficio, nel tempo in cui la misura inizia (o riprende) ad avere esecuzione, dopo essere rimasta sospesa per effetto dello stato detentivo cui era sottoposto l’interessato”).

Fin qui, la Consulta ribadisce il proprio precedente del 2013, evidenziando come la scelta legislativa censurata, nel prestare formale ossequio alla decisione n. 291/13 ne ha invece tradito le fondamenta motivazionali, introducendo nuovamente una disparità di trattamento irragionevole tra situazioni assimilabili, già sanzionata di incostituzionalità.

È nella prosecuzione del proprio incedere argomentativo, tuttavia, che la sentenza espone principi di maggiore rilevanza sistematica.

La sentenza, infatti, seleziona un ulteriore profilo di irragionevolezza, questa volta intrinseca, della norma, ritenendo che “non vi è, in linea generale, alcuna ragione per ritenere che nell’arco di un intero biennio la personalità di un individuo, e in particolare il suo atteggiamento nei confronti dei valori fondamentali della convivenza civile, non possa subire significative modificazioni, quando si tratti di un individuo detenuto in esecuzione di una pena, e dunque sottoposto a un trattamento che per vincolo costituzionale è finalizzato alla sua rieducazione”.

Per addivenire a simile conclusione, il Giudice delle Leggi evidenzia dunque la funzione costituzionale della pena, rilevando anche un contrasto tra la norma al proprio esame e l’art. 27 comma 3 Cost.

Ritiene la Corte che “se è vero, infatti, che il successo di un trattamento rieducativo non è mai scontato, la presunzione legislativa in esame muove – come correttamente rileva il rimettente – dal non condivisibile presupposto che un trattamento penitenziario in ipotesi protrattosi fino a due anni sia radicalmente inidoneo a modificare l’attitudine antisociale di chi vi è sottoposto”.

La presunzione, osserva ancora la Consulta, dovrebbe godere di applicazione generalizzata, giungendo alla parossistica conseguenza di “determinare di per sé l’incompatibilità con l’art. 27, terzo comma, Cost. di tutte le pene detentive di breve durata”.

Riflessione tanto provocatoriamente retorica, quanto palesemente irragionevole e “grossolana” risulta la scelta legislativa scrutinata.

E il sistema presuntivo viene censurato anche al lume dell’art. 13 Cost., che la Corte Costituzionale ritiene, del pari, violato.

La premessa è che “l’esecuzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza comporta una restrizione della libertà personale sancita dall’art. 13 Cost., posto che le prescrizioni inerenti a tale misura – anche quando non sia disposto l’obbligo di soggiorno in un determinato comune – implicano comunque, ai sensi dell’art. 8 cod. antimafia, la sottoposizione a una incisiva serie di obblighi, tra cui quelli di fissare la propria dimora, di non allontanarsene senza preventivo avviso all’autorità di pubblica sicurezza, di non uscire di casa più presto e di non rincasare più tardi di una data ora”.

L’invocazione del fascio di tutele, che la Carta Costituzionale prevede per la libertà personale, fa discendere sulla prevenzione tutti i suoi corollari, tra i quali la riserva di Legge e la riserva di giurisdizione, come argomenta la Corte.

La prima garanzia incrocia i temi delle “qualità delle Leggi”, già oggetto di precedenti interventi della Consulta (sent. 24/19) e dei Giudici Convenzionali (Grande Camera, sent. De Tommaso/Italia).

La seconda subordina la legittimità costituzionale di eventuali restrizioni della libertà personale all’accertamento dei loro presupposti, eseguito caso per caso da parte di un giudice.

Considera, invece, il Giudice delle Leggi che “la disciplina censurata prevede un meccanismo di tutela giurisdizionale successivo e soltanto eventuale (perché attivabile soltanto su istanza di parte) su un requisito centrale – quello della pericolosità dell’interessato – la cui effettiva e persistente sussistenza al momento dell’esecuzione della misura deve essere considerata, a sua volta, condizione della sua proporzionalità rispetto ai legittimi obiettivi di prevenzione dei reati, che la misura di prevenzione persegue”.

Dunque, la Corte non si limita a ritenere incostituzionale ogni meccanismo presuntivo per il riconoscimento del presupposto della pericolosità sociale – che deve essere sempre oggetto di casistico accertamento giurisdizionale – ma riconosce alle misure di prevenzione un effetto limitativo della libertà personale, cui è ancillare il giudizio di proporzionalità, che, nelle parole della sentenza in commento “costituisce requisito di sistema nell’ordinamento costituzionale italiano, in relazione a ogni atto dell’autorità suscettibile di incidere sui diritti fondamentali dell’individuo”.

L’intervento della Corte ribadisce lo statuto costituzionale della prevenzione, elaborato intorno alle direttrici della esistenza di un’idonea base legale, della necessaria proporzionalità della misura rispetto ai legittimi obiettivi di prevenzione dei reati, della riserva di giurisdizione (sent. 24/19).

E, tuttavia, l’articolato iter all’esito del quale tale intervento si è reso necessario, rende evidente, da un lato, la sordità del Legislatore rispetto ai caveat della Consulta; dall’altro, la volontà di continuare a fare della prevenzione un laboratorio per sperimentare sempre nuove eccezioni rispetto a quel tessuto costituzionale, che il Giudice delle Leggi continua ancora a difendere.

Roma, 19 ottobre 2024

La Giunta

L’Osservatorio Misure patrimoniali e di prevenzione

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