24/06/2024
'Cybersicurezza': alcune riflessioni sul d.d.l. c.1717 del Governo.

Il rimedio alla complessità dei fenomeni criminali non può essere costituito da deroghe al regime ordinario, con grave compromissione di diritti di rango costituzionale. Le riflessioni della Giunta e dell’Osservatorio doppio binario sul d.d.l. c.1717 del Governo in tema di cybersicurezza.

I ritmi incalzanti del processo di fagocitazione delle garanzie processuali dell’indagato ed il parallelo tentativo di marginalizzazione delle “occasioni” di contraddittorio tra le parti nella formazione della prova in nome della onnivora ed autoritaria logica “dell’efficientismo a tutti i costi”, consentono di abbandonare la retorica dello stupore dinanzi alla ennesima iniziativa in tal senso intrapresa dal Legislatore.

Come già rilevato nel Documento congiunto dell’Osservatorio Scienza Processo e Intelligenza Artificiale e della Giunta del 22/3/2024 -allorquando si sollevavano “forti perplessità per le soluzioni di intervento legislativo delineate nel disegno di legge C. 1717 Governo” anzitutto perché “la condivisibile esigenza di implementare le sovrastrutture di sicurezza a presidio dei sistemi pubblici e privati di cybernetica […] non richiedeva di intervenire, quantomeno non in misura prevalente, sul sistema sanzionatorio penale”- l’incedere dell’iter legislativo culminato con l’approvazione in Senato del 19.6.2024 del richiamato d.d.l., ha consentito il concretizzarsi dell’intravisto rischio di deriva pan penalistica: il ricorso allo strumento punitivo (o all’inasprimento di quello già esistente) quale simbolica, ma il più delle volte, inefficace, soluzione al complicarsi-articolarsi- aggravarsi di più o meno note istanze antigiuridiche.

La prima impressione emergente da un’organica disamina del Capo II “Disposizioni per la prevenzione e il contrasto dei reati informatici nonché in materia di coordinamento degli interventi in caso di attacco a sistemi informatici o telematici e di sicurezza delle banche di dati in uso presso gli uffici giudiziari” del d.d.l. è quella di un utilizzo “finalistico” del trattamento sanzionatorio.

Da un lato, la scelta di intervenire sugli articoli 615 ter, 615 quater, 617 quinquies, 635 bis, 635 ter, 635 quater e 635 quinquies del codice penale, ampliandone la forbice di pena edittale, - o a voler essere più precisi, portandone il massimo edittale oltre i cinque anni di reclusione - ha innestato quell’indiscriminato fenomeno attrattivo delle succitate fattispecie criminose tra i reati non colposi per i quali, al ricorrere dei presupposti di legge, sono consentite le intercettazioni di conversazioni o comunicazioni telefoniche o di altre forme di comunicazione ai sensi dell’art. 266 co. 1 lett a) c.p.p.

Dall’altro, l’introduzione di un nuovo comma 3 bis all’art. 13 d.l. 152/1991 estende l’applicazione della normativa ivi prevista - derogatoria in chiave di presupposti necessari per autorizzare l’attività di intercettazione nell’ambito dei delitti di criminalità organizzata- alle fattispecie sopra elencate. Opzione legislativa che, tuttavia, prescindendo da quel progressivo processo di stratificazione di interventi giurisprudenziali – tanto nomofilattici quanto costituzionali - volti ad elaborare una giustificazione al sacrificio delle garanzie costituzionali (diritto alla riservatezza dell’individuo) ivi compresse, opera una rischiosa semplificazione foriera di un difetto di coordinamento con i principi giurisprudenziali frutto di quella elaborazione.

Di fatto si è trattato di un intervento sostanzialmente emergenziale che mal si concilia con un auspicabile processo di analisi, approfondimento, conoscenza e sedimentazione di nuove realtà criminogene.

La portata offensiva delle condotte attenzionate resta invariata, sono le modalità di realizzazione del reato che evolvono; in tal senso la norma penale, per legge generale ed astratta, -e pur sempre nei limiti del divieto di analogia in malam partem- avrebbe consentito già nella precedente formulazione di approntare un’efficace e dissuasiva risposta sanzionatoria.

Sotto altro versante l’art. 17 del d.d.l nell’introdurre il n. 7-ter) all’art. 407 co. 2 lett. a) c.p.p., e nell’operarne l’espresso richiamo ad esso nell’art. 406 co. 5 bis c.p.p., determina, per i reati colà indicati, il venir meno del diritto dell’indagato a vedersi notificata la richiesta di proroga del termine delle indagini con l’avviso della facoltà di presentare memorie entro cinque giorni, di cui all’art. 406 co. 3 c.p.p.

A ben vedere, tale scelta di esautorazione della difesa dal contraddittorio, comporta una pregiudiziale rinuncia all’apporto conoscitivo che quella potrebbe introdurre in ambiti di ancora incerta intelligenza, frutto di un limite culturale, peraltro in aperta contraddizione con le spinte legislative che vanno nella direzione di un avvocato specialista.

L’idea generale che se ne ricava è che il rimedio alla complessità dei fenomeni criminali non passi attraverso l’affermazione di un’esigenza di maggiore specializzazione dell’organo inquirente – che costituisce, invece, un ulteriore obiettivo da raggiungere con la separazione delle carriere -, ma lo si ricerchi, quel rimedio, con deroghe al regime ordinario con grave compromissione di diritti di rango costituzionale.

 

Roma, 24 giugno 2024

La Giunta

L’Osservatorio Doppio Binario e Giusto Processo

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