23/07/2024
Procedimento di prevenzione e presunzione di innocenza

L'Osservatorio Nazionale Misure Patrimoniali e di Prevenzione affronta lo statuto della presunzione di innocenza nel procedimento di prevenzione, anche alla luce dei quesiti posti dalla Corte EDU nel procedimento Cavallotti

Nella vicenda Cavallotti/Italia ed in numerose altre ordinanze, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo chede al Governo Italiano di spiegare se una misura di prevenzione possa essere applicata in assenza di una formale dichiarazione di colpevolezza e, in caso di risposta affermativa, se ciò violi o meno la presunzione di innocenza, ai sensi dell’art. 6 § 2 della Convenzione.
Va premesso che detta presunzione, nel diritto convenzionale, ha una accezione più ampia rispetto all’analoga disposizione costituzionale (art. 27 Cost.), che fissa
quella di “non colpevolezza”. 
La norma nazionale si riferisce alla figura “dell’imputato”, cioè di colui nei cui confronti sia stata esercitata l’azione penale, che viene considerato non colpevole sino a sentenza definitiva di condanna.
La disposizione convenzionale, invece, si riferisce alla figura “dell’accusato” di un reato, che si presume innocente sino a che la sua colpevolezza “non sia legalmente accertata”.
Mentre l’art. 27 della Costituzione si riferisce, dunque, soltanto al sistema processuale penale, l’art. 6 § 2 della Convenzione attiene a qualsiasi accusa di un reato, anche estranea ad una accusa penale e persino ad un procedimento giurisdizionale (Allen/Regno Unito, Geerings/Paesi Bassi , Pasquini/San Marino).
Il tema proposto dalla Cedu, quindi, non si risolve nella latitudine degli effetti del giudicato penale nel procedimento di prevenzione, per come colto da molti interpreti.
La questione non è soltanto (né, a dire il vero, soprattutto) se il Giudice della prevenzione possa rilevarsi dallo stare decisis ed applicare una misura anche a chi sia stato assolto nel processo.
Tale problematica, che investe la medesimezza del fatto/reato e del “fattoide” di pericolosità, sarebbe al limite della domanda retorica, incrociando non tanto l’istituto del giudicato, quanto quello, ancor più generale ed immanente, di non contraddizione.
Sarebbe, infatti, logicamente irriducibile escludere, per un via, la responsabilità penale dell’imputato e, per altra via, affermarne la pericolosità sociale sulla scorta del medesimo reato.
Perché, a seguito del progressivo affinamento giurisprudenziale della materia, che, in controluce, va letto come la costante ricerca di una salvezza escatologica per l’armamentario della prevenzione, oggi, tanto per l’affermazione di pericolosità semplice, tanto per quella di pericolosità qualificata, il presupposto è l’accusa di uno o più delitti.
Genericamente lucrogenetici, per la pericolosità di cui all’art. 1 CAM, oppure specificamente indicati nel catalogo dell’art. 4 D.L.vo 159/11.
Un formale ossequio alla precisione della norma, per come richiamata dalla Corte EDU in De Tommaso/Italia e dalla Corte Costituzionale nella sentenza 24/19, che, a causa della pletorizzazione dei casi di applicazione delle misure di prevenzione, è divenuto un richiamo crescente ai corollari del principio di legalità: tassatività, determinatezza, materialità ed offensività.
Concetti richiamati, con ineludibile presupposizione, dalla pretesa di accertamento di un delitto che, ad esempio, sia effettivamente produttivo di reddito o sia effettivamente di ausilio ad un sodalizio mafioso (come insegna SSUU Gattuso).
La trasformazione dello statuto della prevenzione come misura praeter delictum è evidentemente compiuto e tuttavia largamente misconosciuto.
Le ragioni di tale percorso non sono nobili, ma prosaiche.
Non risiedono nell’affrancamento della prevenzione dal suo retaggio di misura di polizia, destinata al bando sociale di soggetti borderline (nel senso etimologico del termine: gli emarginati), ma nella posticcia giustificazione del suo nuovo volto, del suo essere rivolto a soggetti della più disparata estrazione socioculturale, del suo essere una ulteriore duplicazione della sanzione penale.
Le “garanzie” servono a tacitare le voci dissonanti, a perpetrare le frodi delle etichette, a rassicurare il cittadino con la promessa di un fairy trial, in quella che fu la patria del Diritto.
Peccato, però, che esse servano, invece, a sfruttare le asistematicità della prevenzione: la sua affermata retroattività, l’imprescrittibilità dell’azione, la instabilità del giudicato, la sottrazione alla riserva di Legge, gli squilibri nel quomodo della prova che è incentrato su presunzioni, legali e semplici.E, tuttavia, la tassativizzazione dei presupposti personali di pericolosità sociale reclama, alla luce dei quesiti formulati dalla CEDU, l’applicazione di un ulteriore concetto proprio della materia penale, che è quello della colpevolezza e della
presunzione negativa che lo presidia.
L’affermazione di pericolosità sociale generica, di contro, presuppone l’accusa – basata su “elementi di fatto” - della commissione di un delitto lucrogenetico e, dunque, l’affermazione incidentale di colpevolezza.
Anche l’”appartenenza mafiosa” coincide con una violazione del precetto penale (partecipazione o concorso “esterno”).
È, allora è evidente l’applicabilità, anche ai procedimenti di prevenzione, della presunzione di non colpevolezza, in forza del principio secondo il quale - anche in assenza di constatazione formale - è sufficiente che al Giudice sia richiesta una motivazione che lasci intendere che l’interessato è colpevole (Corte europea diritti dell’uomo, Sez. II, Sent., data ud. 20/03/2012).
Tali constatazioni di fatto, consistendo in una accusa di natura penale, devono essere sottoposte alla presunzione di innocenza e pretendere il previo legale accertamento del fatto e della responsabilità, che sono tuttavia accertamenti estranei al procedimento di prevenzione, non garantito ai sensi dell'art. 111 Cost. e 6 CEDU e tradizionalmente fondato su indizi semplici (cioè non rispondenti ai criteri di cui all'art. 192, comma 2 cpp) e su presunzioni (Cass. Sez. V, sentenza n. 30533/21).
Il modello della prevenzione, dunque, presuppone la formulazione incidentale di un giudizio di colpevolezza, senza tuttavia disporre degli strumenti procedimentali per il “legale accertamento” della stessa.
Funzione euristica per il corretto esercizio della quale detto procedimento difetta delle necessarie garanzie partecipative di cui all’art. 111 Cost. e 6 CEDU.
Ciò non significa che sia necessaria una sentenza penale irrevocabile di condanna, ma, quantomeno, che sia stato instaurato un procedimento penale che, all’esito di un giudizio a contraddittorio pieno, si concluda con una sentenza, di condanna o di proscioglimento che accerti la ricorrenza del fatto che origina il giudizio di pericolosità e la sua riferibilità al soggetto destinatario della misura di prevenzione.
Simile modello è peraltro fatto proprio dall’ordinamento interno, a seguito della sentenza De Tommaso/Italia sul modello di prevenzione “non qualificato”.
La Corte Costituzionale (sent. 24/19) ha infatti ritenuto che l’affermazione di pericolosità sociale, presupposto necessario per la confisca, richieda “un pregresso accertamento in sede penale, che può discendere da una sentenza di condanna oppure da una sentenza di proscioglimento per prescrizione, amnistia o indulto che contenga in motivazione un accertamento della sussistenza del fatto e della sua commissione da parte di quel soggetto”. Affermazione ormai stabilmente ripresa dalla Corte di Cassazione (da ultimo, Cass. Sez. VI penale, sentenza 12699/24).
La vicenda Cavallotti, tuttavia, presenta una ulteriore caratteristica, data dalla circostanza che i ricorrenti sono stati sottoposti a procedimento penale, in relazione ai fatti di reato sui quali si fonda l’azione di prevenzione, con esito assolutorio.
L’applicazione di una misura di prevenzione, nonostante l’assoluzione definitiva penale, oltre a violare il divieto di bis in idem sanzionatorio/processuale, a causa della natura di pena della confisca viola anche la presunzione di innocenza.
Infatti, il campo di applicazione dell'articolo 6 § 2 si estende a tutti i procedimenti ulteriori rispetto al proscioglimento definitivo dell'accusato, quando “le questioni sollevate in queste procedure costituivano un corollario ed un complemento dei procedimenti penali in questione nell'ambito dei quali il ricorrente aveva la qualità di accusato" (Corte europea diritti dell'uomo, Sez. II, Sent., (data ud. 01/10/2013) 29/10/2013, n. 17475/9).
L’accusa nel procedimento penale e quella nel procedimento di prevenzione si fondano sul medesimo materiale probatorio e sulle medesime contestazioni di fatto, in quanto entrambi i procedimenti presuppongono, in via diretta o indiretta, la responsabilità penale relativa ad un reato.
Ciò che è sempre stata una prassi metodologica è oggi positivizzato dalla recente introduzione, nel codice di procedura penale italiano, dell’art. 578-ter che consente di “trasferire” – nei casi di sopravvenuta improcedibilità dell’azione penale ivi disciplinati- la pretesa pubblica di punizione dal processo penale a quello di prevenzione, con le medesime contestazioni e le medesime prove.
Ciò posto, è affermazione stabile della Corte EDU che “una volta che una sentenza di proscioglimento è diventata definitiva - anche se si tratta di un proscioglimento con il beneficio del dubbio conformemente all'articolo 6 § 2 - esprimere dubbi sulla colpevolezza, compresi quelli basati sui motivi del proscioglimento, non è compatibile con la presunzione di innocenza. In effetti, decisioni giudiziarie successive o dichiarazioni che emanano da autorità pubbliche possono porre un problema dal punto di vista dell'articolo 6 § 2 se equivalgono ad una constatazione di colpevolezza che disconosce, deliberatamente, il precedente proscioglimento dell'accusato” (Corte europea diritti dell'uomo, Sez. II, Sent., (data ud. 01/10/2013) 29/10/2013, n. 17475/9). Il dispositivo di una sentenza di proscioglimento deve essere rispettato da ogni autorità che si pronunci direttamente o incidentalmente sulla responsabilità penale dell'interessato (ibidem).
Tale conclusione si rinviene anche nella più recente giurisprudenza interna (Cass., Sez. VI, n. 23923/2023 del 03.04.2023), secondo la quale “la negazione penale di un fatto impedisce di assumerlo come elemento indiziante ai fini del giudizio di pericolosità nel procedimento di prevenzione”.
Deve allora concludersi che la tassatività sostanziale, che innerva ormai anche la materia della prevenzione, non possa che essere coniugata agli altri corollari della legalità, quali quelli di materialità ed offensività, ma, quale apriori logico, soprattutto quello della presunzione di innocenza.
Roma, 22 luglio 2024
L’Osservatorio Nazionale Misure Patrimoniali e di Prevenzione
 

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