16/05/2016
La sentenza della CGUE Aranyosi e Caldararu apre nuovi orizzonti nella valutazione del MAE che comporti il rischio di trattamento inumano e degradante.

La CGUE riconosce che il divieto di pene o trattamenti inumani e degradanti costituisce un valore fondamentale dell’Unione che ha carattere assoluto e inderogabile. Quindi se si profila un rischio reale e concreto e vi siano elementi obiettivi, affidabili, precisi e debitamente attualizzati che facciano ritenere probabile che il ricercato venga sottoposto ad un trattamento inumano e degradante, lo Stato di esecuzione è tenuto a valutarlo e quindi a rifiutare la procedura di consegna se le informazioni fornite dallo Stato richiedente non consentano di ritenere superato quel rischio.

Si ringrazia Maria Mercedes Pisani, componente dell’Osservatorio Europa, per la collaborazione nella stesura del documento

Se vi è rischio di trattamento inumano e degradante, l’autorità giudiziaria d’esecuzione può sospendere o decidere di porre fine alla procedura di esecuzione di un mandato d’arresto europeo.

 

Abstract

In its decision on the cases Aranyosi (C-404/15) and Căldăraru (C-659/15 PPU), The Court of Justice of the European Union stated that, although Member States are obliged to respect the mutual recognition principle and therefore they cannot introduce non-execution mechanisms which are not provided in the Framework Decision on the European Arrest Warrant, they are obliged to respect the fundamental rights of the requested people. The Court made it clear that fundamental rights, such as the prohibition of torture and ill treatments set out in Article 3 ECHR and Article 4 of the EU Charter, are absolute rights, they are not derogable, and Member States have the obligation to respect and protect them in every circumstance.
The decision supports the application of the proportionality principle in European criminal cooperation, that means that the [European procedure on] EAW should be activated when the scope is proportionate to the instrument and resources involved.  The EUCJ considered some decisions of the European Court of Human Rights relevant precedents in order to establish that there was a real risk that the requested persons, if surrendered to the requesting State, would be subjected to detention conditions that infringe their fundamental rights. The decision requires national Judicial Authorities to defer the execution of an European Arrest Warrant until the requesting State provides sufficient information to ensure that the requested persons'  fundamental rights  are effectively protected. If such information is insufficient or is not given within a reasonable period of time, it remains upon the Judicial Authority of the requested State to decide whether or not to terminate the procedure.

 

1. Forme di dialogo tra Corti Sovranazionali.

La Corte di Giustizia dell'Unione Europea si pronuncia ancora una volta in relazione alla procedura di esecuzione del mandato d'arresto europeo[1], con una sentenza che mette nuovamente in risalto (ove ve ne fosse ancora il bisogno) la straordinaria rilevanza del dialogo tra le Corti internazionali e sovranazionali e quanto il diritto interno possa essere governato anche attraverso l'influenza di organismi diversi da quelli appartenenti strettamente al sistema dell'Unione europea.

La Corte, per motivare la sua decisione fa riferimento all'esistenza di varie sentenze della Corte EDU, une delle quali è un "caso pilota", che hanno stabilito l'esistenza di violazioni dell'art. 3 della CEDU e ritiene che, pertanto, sussistano indicazioni serie per le quali le condizioni di detenzione, nei due Stati membri richiedenti le consegne, violino i diritti fondamentali delle persone interessate dalla consegna ed i principi generali del diritto consacrati all'articolo 6 del Trattato sull'Unione europea. Nel primo dei due casi, (Aranyosi[2] causa C-404/15, per un mandato d’arresto richiesto dallo Stato ungherese) trova rilievo anche il rapporto stabilito dal Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura e delle Pene e Trattamenti Inumani o Degradanti, il quale si riferisce in particolare all'importante sovrappopolazione carceraria in Ungheria, constatata in occasione di visite effettuate tra l'anno 2009 e l'anno 2013.

Non si può fare a meno di ricordare come appena nel dicembre del 2014 la Corte di Giustizia dell'Unione Europea aveva espresso parere negativo all’adesione alla CEDU, ritenendo incompatibili con il diritto europeo gli accordi di adesione proposti. Con l'adozione del parere 2/13 del 18 dicembre 2014, nonostante l'adesione sia prevista espressamente dal Trattato UE, dopo la modifica di Lisbona, la Corte ha imposto l'arresto dei negoziati per l'adesione alla Convenzione CEDU. Gli elementi ostativi all'adesione si fondano essenzialmente sulle caratteristiche e specificità dell'Unione europea, in particolare sull'avere un quadro istituzionale proprio, caratterizzato dal primato del suo diritto -da fonte autonoma- su quello degli Stati membri, con la capacità di dispiegare effetti e riconoscere come soggetti non solo gli Stati ma anche i cittadini stessi. In tema di diritti fondamentali ciò comporta che questi, lungi dal costituire prerogative assolute, devono essere considerati ed assicurati nell'ambito della struttura e degli obiettivi dell'Unione e in funzione delle attività o degli scopi propri all'Unione stessa.

La sentenza Aranyosi e Caldararu, del 5 aprile 2016, in effetti, è sicuramente più comprensibile una volta inquadrata la prospettiva di analisi della Corte dell'Unione europea. I diritti fondamentali in discussione, tutelati dall'art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea[3], oltre che dall'art. 3 della CEDU, vengono chirurgicamente inquadrati nel contesto di diritto europeo. Difatti, proprio perché riconosciuto dalla Carta, ed in funzione del suo valore costituzionale[4] e nei limiti stabiliti dal quadro costituzionale stesso, al divieto di pene e trattamenti inumani e degradanti è riconosciuto un carattere assoluto. A sostenere la tutela di questo diritto, interviene, con particolare rilievo, il principio di proporzionalità, previsto dall'art. 52 della Carta e richiamato nella decisione in commento[5] al fine di definire l'estensione e lo scopo della tutela garantita: qualsiasi limitazione dei diritti fondamentali e delle libertà individuali operata dal diritto dell'Unione deve essere necessaria e rispondere effettivamente a obiettivi d'interesse generale riconosciuti dal diritto dell'Unione.

2. Sintesi dei casi

Al fine di inquadrare più agevolmente i termini della discussione, è necessaria una sintesi delle vicende sottoposte all'attenzione della Corte di Giustizia dell’Unione europea.

In due diversi casi, il Tribunale di Brema ha chiesto, formulando questione pregiudiziale, alla Corte di Giustizia dell'Unione europea, se in presenza di elementi seri, che attestano la incompatibilità con i diritti fondamentali, ed in particolare dell'art. 4 della Carta, delle condizioni di detenzione nello Stato membro richiedente, l'autorità giudiziaria richiesta possa o debba rifiutare l'esecuzione di un mandato d'arresto europeo, emesso nei confronti di una persona, o se debba, invece, subordinare la consegna di quella persona alla comunicazione di informazioni, da parte dello Stato richiedente, che assicurino la conformità delle condizioni di detenzione ai diritti fondamentali.

Nel primo caso, il sig. Aranyosi, di nazionalità ungherese, è destinatario di due diversi mandati d'arresto europeo ai fini dell'esercizio dell'azione penale. I reati che gli sono contestati sono un furto con effrazione in un'abitazione, commesso quando era appena maggiorenne, ed un furto con danneggiamento in una scuola, commesso quando era ancora minorenne. Al momento dell'arresto, il sig. Aranyosi viveva con la madre in Germania, aveva una compagna ed un figlio di 8 mesi. Il procuratore ungherese, a seguito di richiesta di informazioni da parte del pubblico ministero di Brema, ha indicato che nel caso di specie, la detenzione preventiva e la richiesta di una "pena" (cit.[6]) privativa della libertà non erano indispensabili, poiché in diritto ungherese esistono misure alternative meno coercitive e che varie misure, diverse da quella privativa della libertà potevano essere prese in considerazione nel caso. È stata richiesta l'applicazione della procedura d'urgenza (PPU), che la Corte ha rigettato poiché il sig. Aranyosi era stato rimesso in libertà a seguito delle informazioni ottenute dal procuratore ungherese di cui appena riferito. Tuttavia, la Corte ha accordato alla questione carattere prioritario.

Il sig. Caldararu è un cittadino rumeno che è stato condannato alla pena privativa della libertà di un anno e otto mesi per guida senza patente con una sentenza pronunciata dal Tribunale rumeno di Fagaras. È destinatario di un mandato d'arresto ai fini dell'esecuzione della condanna ed è stato arrestato a Brema.

Per entrambi i casi, la giurisdizione tedesca ritiene che ci siano seri e probanti indizi per i quali, in caso di consegna dei due ricercati, essi possano essere sottoposti a condizioni detentive che violino l'art. 3 della CEDU ed i diritti fondamentali e principi generali del diritto europeo consacrati dall'art.6 del TUE. Ed infatti la Corte EDU ha condannato sia l'Ungheria[7] sia la Romania[8] per la violazione dell'art.3 della CEDU, dal momento che si è constatato che i detenuti son ristretti in celle sovraffollate, senza sufficiente riscaldamento, senza acqua calda per l'igiene personale, in sostanza constatando condizioni di detenzione inumane e degradanti. Nel caso dell'Ungheria, inoltre, la violazione delle condizioni di dignità e umanità è attestata anche da un rapporto stabilito dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura, delle pene o dei trattamenti inumani o degradanti, sulla base di visite effettuate tra il 2009 ed il 2013[9].

3. Fiducia reciproca - reciproco riconoscimento - proporzionalità

La Corte illustra la decisione costruendo le sue argomentazioni intorno a tre elementi: la reciproca fiducia tra Stati membri, il reciproco riconoscimento, il principio di proporzionalità.

La motivazione inquadra, innanzi tutto, lo scopo e i principi che sorreggono l'istituzione della procedura del mandato d'arresto europeo. Lo scopo, notissimo, è di sostituire la tradizionale procedura di estradizione con una procedura di consegna più snella, tra autorità giudiziarie, delle persone condannate o sospettate di aver commesso un reato, in vista dell'esecuzione della pena o dello svolgimento di un processo. La cooperazione tra le autorità giudiziarie è destinata a realizzare l'obiettivo dell'Unione di diventare uno Spazio di Libertà, Sicurezza e Giustizia (uno spazio giudiziario unico) fondato sulla fiducia reciproca che dovrebbe esistere tra gli Stati membri.

Il sistema europeo si fonda sul principio del reciproco riconoscimento e sulla fiducia reciproca tra gli Stati membri. Il principio di fiducia reciproca, in particolare, è basato sull'assunzione che gli ordinamenti giuridici nazionali siano in grado di fornire una protezione equivalente ed effettiva dei diritti fondamentali riconosciuti dalla Carta e dai Trattati istitutivi. Per la precisione, la reciproca fiducia comporta che ciascuno Stato membro debba dare per acquisito e considerare che tutti gli Stati membri rispettino il diritto dell'Unione e in particolare i diritti fondamentali da esso riconosciuti. L'equilibrio del sistema dell'UE impone, quindi, di non effettuare alcun controllo sull'effettiva tutela dei diritti fondamentali, che, invece, è l'essenza del sistema CEDU.

Quanto al reciproco riconoscimento, non è che un'applicazione del principio di reciproca fiducia, è considerato la "pietra angolare" della cooperazione giudiziaria in materia penale e ad esso consegue che un'autorità giudiziaria di uno Stato non possa rifiutare l'esecuzione di una misura richiesta da un altro Stato, salvo casi di non esecuzione espressamente previsti e circostanze eccezionali.

L'elemento nuovo di questa decisione sui casi Aranyosi e Caldararu è determinato dall'introduzione di un bilanciamento costituito dall'applicazione del principio di proporzionalità. Innovazione relativa, poiché si deve dar atto che, da qualche anno a questa parte, la dottrina europea ha sempre più frequentemente invocato lo sviluppo della funzione del principio di proporzionalità, nell'ambito della cooperazione giudiziaria penale europea, costatando, con preoccupazione, un certo sbilanciamento in conseguenza della rigida applicazione dei principi europei e in particolare del reciproco riconoscimento. In effetti, anche nei rapporti della Commissione europea sull'attuazione della decisione quadro sul mandato d'arresto europeo, si è dovuto constatare che l'attuazione rigida del principio del reciproco riconoscimento, che guida l'attuazione del mandato d'arresto europeo rendendone obbligatoria l'esecuzione, ha permesso frequentemente la retrocessione della tutela dei diritti fondamentali al punto da dar luogo a consegne sicuramente sproporzionate allo scopo dello strumento se non, in alcuni casi, a dei veri e propri abusi.

Il principio di proporzionalità nel diritto europeo della cooperazione penale ha caratteristiche diverse dalla proporzionalità esclusivamente intra-ordinamentale. È un principio fondamentale che non costituisce soltanto l'elemento di bilanciamento, in caso di constatazione di una infrazione alla legge penale, tra gli interessi della persona perseguita e quelli della società, ma è anche l'elemento che permette di dare maggiore stabilità alla reciproca fiducia nella cooperazione penale europea.

Il momento che ha costituito, senza alcun dubbio, una svolta nell'applicazione e nell'importanza del principio di proporzionalità è l'adozione del Trattato di Lisbona, con il quale la Carta ha assunto valore costituzionale; in virtù dell'art. 52 della Carta, in sostanza, in materia penale, una misura di diritto europeo a carattere repressivo, potrà venire a limitare i diritti e le libertà dell'individuo solo a condizione di esser necessaria al raggiungimento di un interesse generale riconosciuto dall'Unione[10].

L'esigenza di una ricerca dell'adeguata base giuridica, del richiamo della fonte nel Trattato, per l'applicazione di questo principio nella cooperazione giudiziaria in materia penale dipende dal fatto che il diritto derivato (mandato d’arresto europeo - MAE, ordine europeo d’indagine - OEI) non offre alle autorità nazionali gli strumenti necessari al rispetto effettivo della proporzionalità in questi campi [11] .

In materia di cooperazione penale europea, il principio di proporzionalità va ricercato nel rapporto tra la misura repressiva, rappresentata dallo strumento di cooperazione (MAE, OEI) e la protezione delle libertà individuali nell'ambito della procedura di cooperazione stessa. In sostanza, la proporzionalità va esaminata ed applicata nell'ambito specifico degli strumenti di reciproco riconoscimento.

Due sono i momenti in cui può esser verificata la proporzionalità della misura richiesta: al momento dell'emissione ed al momento dell'esecuzione della misura.

L'analisi di proporzionalità da parte della giurisdizione nazionale si impone già nella fase della procedura penale, ma, nella prospettiva della cooperazione penale europea ha lo scopo di assicurare la qualità e la legittimità dell'attività di cooperazione stessa: è uno strumento che alimenta la fiducia reciproca tra le autorità giudiziarie. Il controllo di proporzionalità, quindi, deve necessariamente essere eseguito dall'autorità giudiziaria richiedente, nel momento in cui decide di emettere uno strumento, una misura di cooperazione, incontra, però, (come segnalato anche nelle conclusioni dell'Avvocato Generale Y. Bot, nel caso qui commentato[12]) un ostacolo in quei paesi ove vige il principio dell'obbligatorietà della legge penale. In questi Stati, secondo la Corte, la mancanza di proporzionalità delle misure non è che la conseguenza dell’impossibilità a rinunciare a mettere in esecuzione una sentenza o a richiedere l'esercizio dell'azione penale nei confronti di un soggetto, anche quando il reato ha caratteristiche tali da potersi considerare reato minore, o di lieve entità, o sia comunque sproporzionato rispetto al dispendio di risorse che comporta l'instaurazione di una procedura di cooperazione.

Non si può fare a meno di notare, però, che anche senza intaccare l'applicazione di questo principio, l'Autorità Giudiziaria dello Stato di emissione, nella maggior parte dei casi, all'esito della valutazione di proporzionalità, potrebbe scegliere diverse modalità di esecuzione o addirittura strumenti diversi, che consentono l'effettivo l'esercizio dell'azione penale o l'esecuzione della condanna.

La valutazione della proporzionalità, da parte dello Stato di esecuzione della misura, invece, deve far configurare la possibilità di rifiutarne l'esecuzione per sproporzione manifesta rispetto al fatto commesso. In questo caso, però, la costante giurisprudenza della Corte di Giustizia dell'UE[13] ha sancito l'impossibilità di ostacolare l'esecuzione di una decisione straniera introducendo motivi di rifiuto d'esecuzione non previsti nella decisione quadro (o nella direttiva) quale motivo di non esecuzione.

In effetti manca del tutto, in diritto come nella giurisprudenza, l'individuazione dei criteri guida dell'applicazione del principio di proporzionalità, i quali, invece, sono stati indicati dalla Commissione nel suo rapporto sull'esecuzione del MAE nel 2011 [14]: la Commissione afferma che è necessario un controllo di proporzionalità per evitare che dei mandati d'arresto siano emessi per delle infrazioni che, sebbene rilevino del campo di applicazione della decisione quadro, non sono sufficientemente gravi da giustificare i costi e l'impegno che questo tipo di cooperazione richiede. Gli aspetti che, secondo la Commissione, devono essere tenuti in conto sono: la gravità dell'infrazione, la durata della condanna, l'esistenza di eventuali altre procedure meno gravose, sia per la persona ricercata che per l'autorità d'esecuzione, ed un'analisi costi-benefici dell'esecuzione dei MAE. Le conseguenze sulla libertà delle persone ricercate sono da considerare sproporzionate quando sono emessi mandati d'arresto europei in casi nei quali la limitazione (provvisoria) della libertà della persona sarebbe normalmente considerata inappropriata. Particolare importanza, poi, nel caso di mandato d'arresto ai fini dell'esercizio dell'azione penale, riveste la presunzione d'innocenza: la limitazione della libertà, in questa ipotesi, deve essere considerata con ancora maggiore cautela.

Nondimeno, la valutazione di proporzionalità pone un problema non da poco: in caso di contestazione sulla fondatezza del rifiuto d'esecuzione per manifesta sproporzione, quale sarebbe l'autorità giudiziaria competente a decidere del ricorso?

Manca, nella decisione, il richiamo anche all'art. 49, par. 3 della Carta, che, invece, sarebbe stato interessante collegare all'attuazione del principio di proporzionalità individuato nell'art. 52, dal momento che questo paragrafo in particolare prevede che, in materia repressiva, l'intensità delle pene non debba essere sproporzionata in relazione all'infrazione. Resta dubbio lo strumento col quale potrebbe essere applicata questa disposizione in caso di MAE (ma, in prospettiva anche di OEI): una valutazione sull'intensità della pena in proporzione all'infrazione rimetterebbe in discussione il principio stesso del reciproco riconoscimento, soprattutto nel caso di MAE per l'esecuzione di una condanna definitiva[15].

4. Le conclusioni della Corte di Giustizia dell'Unione europea

Per la Corte di Giustizia dell'Unione europea, resta fermo il principio che non sia possibile introdurre un nuovo motivo di rifiuto di esecuzione di un MAE non previsto dalla Decisione quadro. L'unico caso, quindi, previsto dalla decisione quadro, in cui si potrà procedere alla generale sospensione dell'esecuzione dei MAE verso uno Stato membro resta quello della violazione grave e persistente, da parte di quello Stato, dei principi sanciti all'art. 2 del Trattato e in conformità della procedura prevista nel suo art. 7.

D'altro canto, però, la Corte afferma anche che l'applicazione della decisione quadro non potrebbe, comunque, avere per effetto di modificare l'obbligo di rispettare i diritti fondamentali così come sono consacrati, tra l'altro, nella Carta dell'UE, tra i quali si impone, agli Stati membri e alle loro giurisdizioni, il divieto di pene che consistano in trattamenti inumani e degradanti. A questo principio la sentenza riconosce carattere assoluto, poiché è strettamente legato al rispetto della dignità umana (art. 4, Carta UE) e confermato dall'art. 3 della CEDU (cui corrisponde appunto il diritto fondamentale protetto dalla Carta).

La Corte di Giustizia dell’UE , in sostanza, riconosce che il divieto di pene o trattamenti inumani e degradanti costituisca un valore fondamentale dell'Unione, che ha carattere assoluto e inderogabile, persino nel caso di lotta al terrorismo e al crimine organizzato, nella misura prevista e tutelata sia dallo strumento europeo, che è la Carta dei diritti fondamentali dell’UE, sia dalla CEDU.

Ne conclude che, laddove si profili il rischio reale, concreto e vi siano elementi obiettivi, affidabili, precisi e debitamente attualizzati, che facciano ritenere probabile che il ricercato venga sottoposto ad un trattamento inumano e degradante, lo Stato di esecuzione è tenuto a valutarlo, in applicazione di una giurisprudenza CEDU per la quale lo Stato ha un obbligo positivo di assicurarsi che qualsiasi detenuto sia custodito in condizioni che garantiscono il rispetto della dignità umana.

Per non contravvenire agli scopi, legittimi, di realizzazione dello spazio giudiziario europeo attraverso il riconoscimento reciproco degli atti giudiziari, l'esecuzione del mandato d'arresto dovrà essere sospesa, ma non abbandonata. Incombe, poi, sull'autorità giudiziaria dello Stato di esecuzione il compito di valutare, nel caso le informazioni fornite dallo Stato richiedente non consentano di ritenere quel rischio superato in un lasso di tempo ragionevole, se è il caso di mettere fine alla procedura di consegna.

Per concludere, sarà interessante verificare in che modo dovrà adattarsi la giurisprudenza dei nostri Tribunali ed in particolare della Corte di Cassazione, e quale sarà, quindi l'effetto "verticale" di questa, finalmente, più avanzata tutela dei diritti fondamentali e dell'applicazione del principio di proporzionalità sancito in questa sentenza. Non si può dimenticare, infatti che la Corte di Cassazione, fino ad ora ha mantenuto fermo il principio, secondo il quale il rifiuto di consegnare una persona richiesta da uno Stato è consentito esclusivamente nel caso in cui le violazioni accertate dell'art. 3 della CEDU costituissero delle forme legalizzate di tortura, in sostanza che fossero "riferibili a scelte normative o di fatto dello Stato richiedente[16]", mentre nessuna rilevanza potevano avere precedenti accertamenti (considerati solo episodi specifici) da parte della Corte EDU o del Comitato per la prevenzione della tortura.

L’Osservatorio Europa

Roma, 4 maggio 2016