Arrendersi al nemico - novembre 2015

di Francesco Petrelli

E’ facile, nei periodi di pace e di assenza di tensioni sociali, coniugare la sicurezza e le garanzie, i diritti dei singoli e l’ordine pubblico, autorità e libertà. Difficile, invece, tenere ferma la barra dei diritti e dei principi costituzionali quando la vita dei singoli, le stesse ragioni della convivenza civile e la sicurezza sono scosse dalle fondamenta. Lo sgomento che pesa nel cuore di chi assiste ai più atroci gesti del terrore condiziona l’opinione pubblica ed orienta conseguentemente le scelte politiche di chi governa. Ma la tensione fra l’autorità e la libertà sembra gravare in modo particolare sulla magistratura, la cui indipendenza rischia di essere turbata e condizionata dalla domanda di sicurezza. Come ha voluto ricordare con coraggio il Procuratore di Trento, Giuseppe Amato, il “compito di un magistrato" non è affatto quello “di adottare un provvedimento popolare o impopolare, ma di valutare con assoluta serenità”. E questo non significa affatto che si possa essere immuni “dall’emozione per fatti gravissimi come quelli di Parigi che colpiscono tutti come uomini, ma nel lavoro è ingiusto e non rispettoso farsi guidare da queste”. Abbiamo ben compreso come il provvedimento adottato dal GIP di Trento, che tanto scandalo ha suscitato nei giorni scorsi, non è stato affatto il frutto – come qualcuno avrebbe scandalisticamente preferito - di qualche “errore di trascrizione”, bensì il risultato di una meditata scelta di quella Procura che ha ritenuto, pur rischiando l’impopolarità, di dover applicare la legge processuale escludendo che a carico di sette dei diciassette indagati del processo, trasmesso per competenza territoriale dalla Procura romana, sussistessero i gravi indizi di colpevolezza necessari alla rinnovazione delle misure cautelari. Eppure è oggi proprio questo a fare scandalo: che un magistrato faccia prevalere la garanzia sulla pulsione repressiva, che un pubblico ministero, in un momento di crisi, faccia governare la sua scelta all’osservanza del diritto piuttosto che al giustificato, ma cieco, rifiuto di questo o quel fenomeno criminale. E’ successo con simile scandalo che la Cassazione prescrivesse i reati contestati nel processo Eternit, quando giudici di appello hanno ribaltato condanne in assoluzioni, perché nel tempo è maturata un’idea della giurisdizione cui si plaude solo se applica cautele, se somministra condanne e se provoca repressione. La mitezza delle sanzioni, la prudenza del principio di non colpevolezza, il riconoscimento delle garanzie corrono in questo clima difficile come distorsioni inaccettabili, un piegarsi al “nemico”, senza invece comprendere che è proprio il declinare dai principi liberali e democratici della nostra civiltà, l’abbandonarne le fondamentali garanzie di libertà, che significa arrendersi a quel nemico. Ed è per questo che ci sembra importante essere solidali con chi con umiltà e serietà fa il suo difficile lavoro di magistrato, senza perdere il proprio equilibrio e senza dare spettacolo per un pubblico di tricoteuses. E ci sembra in verità anche necessario farlo, vedendo che la magistratura associata, sempre pronta ad intervenire in difesa di più modesti interessi corporativi, e ad evocare improvvidi attacchi alla sua autonomia, resta in imbarazzato silenzio quando si tratta invece di tutelare quei magistrati che, sull’onda del populismo, vengono indicati al pubblico ludibrio sol perché hanno applicato la legge senza rispondere ai furori giustizialisti di turno.